Pigmento, legante, solvente e additivi

Un inchiostro, pensavo, è molto più di quello che sembra. Non è solo colore su carta, ma una composizione complessa, una combinazione delicata di elementi che lavorano insieme, talvolta in perfetta armonia, talvolta con qualche frizione. Pigmento, resine, oli, cere – ognuno gioca il proprio ruolo.

A pensarci bene, anche le vernici fanno parte di questa famiglia. Sono, in fondo, inchiostri privati del colore – inchiostri senza pigmento, con una funzione diversa, quasi ascetica.

Come asciugano gli inchiostri

Ogni tipo di inchiostro ha il suo modo di “comportarsi”, come se avesse una propria personalità. Alcuni asciugano per penetrazione, un processo quasi meccanico e diretto. Sono gli inchiostri derivati dal petrolio, incapaci di legarsi chimicamente con l’ossigeno. Lavorano, piuttosto, per assorbimento nel materiale che li ospita: carte naturali, riciclate, non patinate, cartone e cartoncino. Lasciano un’impronta discreta, quasi silenziosa.

Altri, invece, asciugano per evaporazione. Sono quelli usati in flessografia e rotocalco, composti da una miscela di solventi e leganti. Il loro processo è rapido, lasciando che il solvente si disperda nell’aria.

E poi ci sono gli inchiostri che essiccano all’aria. Come le vernici, si nutrono dell’ossigeno, che si inserisce nelle catene chimiche del carbonio, stabilizzandole. È un processo che richiede tempo. Non è solo aria, però; anche il calore può contribuire, accelerando quella che si potrebbe chiamare una “maturazione”.

Gli inchiostri di quadricromia

Gli inchiostri di processo – o di quadricromia – hanno una loro universalità, una denominazione comune, un’origine condivisa che li rende familiari, quasi prevedibili. Sono composti essenzialmente dalle stesse materie prime, seguendo norme internazionali. Tuttavia, c’è qualcosa di fragile in loro. Il giallo (Y) è il colore meno stabile, e questo spiega perché il verde – un incontro tra giallo e ciano – svanisce per primo. Come se portasse dentro di sé una vulnerabilità che lo rende unico, ma anche transitorio.

I veicoli utilizzati nella formulazione degli inchiostri hanno un ruolo cruciale, avvolgono bagnano e tengono in sospensione il pigmento, permettono di definire la struttura dell’inchiostro per conferire alla materia la struttura di pasta-gel facilmente trasferibile dal calamaio ai rulli, quindi al supporto finale e permetterne la solidificazione.

Gli additivi, dicono, sono essenziali. Senza di loro, l’inchiostro non sarebbe abbastanza resistente allo sfregamento, né sufficientemente scorrevole. Quei composti – un misto di cera polietilenica e teflon – sembrano così tecnici, così precisi, eppure, messi insieme, hanno il semplice scopo di rendere tutto più liscio, più resistente. Perchè la scivolosità e la resistenza sono l’unica cosa che conta davvero.

Quando il processo di stampa finisce, si può osservare l’inchiostro che aderisce al supporto. Segue le linee sottili e impercettibili della superficie, insinuandosi nei micropori della carta. E lì accade qualcosa di particolare: l’inchiostro cambia. Non è più fluido, ma nemmeno del tutto solido. Si trasformava, in silenzio, diventando elastico, aggrappandosi al suo supporto.

In qualsiasi conversazione sul processo di produzione degli inchiostri da stampa, emergono sempre alcune regole fondamentali, cose che non si possono proprio ignorare. Si tratta di un insieme di sostanze che, per vari motivi, non vengono utilizzate: quelle tossiche o molto tossiche, quelle classificate come cancerogene, mutagene o reprotossiche. Poi ci sono i metalli pesanti, un capitolo a parte, e altre sostanze specifiche che potrebbero creare problemi, che siano di natura sanitaria o ambientale.

Se guardi un inchiostro offset — quello usato nella stampa litografica — te lo puoi immaginare come una pasta densa, appiccicosa, incredibilmente pigmentata. Ha quella consistenza oleoresinosa che sembra quasi grassa al tatto, un materiale che porta con sé una strana fisicità, concreta e tattile, come se raccontasse già una parte della sua funzione.

Azzarderei a dire che gli inchiostri infondo sono come le persone, hanno la loro chimica, i loro equilibri delicati, le loro instabilità.

In numeri: il pigmento rappresenta dal 13 al 20% di questa miscela; le resine alchidiche, ricavate da fonti vegetali come il lino o la soia, si attestano al 10-15%; le resine dure, spesso derivate dalla colofonia, si aggirano intorno al 25-30%. Poi ci sono gli oli, minerali o vegetali, che occupano il 30-35%, mentre le cere ne costituiscono circa il 5%. Una piccola percentuale, appena l’1-2%, è dedicata agli essiccanti e agli antiessiccanti, come se fossero il tocco finale di una composizione attentamente bilanciata.



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